martedì 29 gennaio 2008

Rosario Assunto - Cultura degli alberi e cultura dello spazio (seconda parte)

L’albero, dicevamo, è verticale : affonda le radici nella terra ed apre al cielo i suoi rami. E come l’albero, così l’uomo fedele alla cultura dell’albero: si alimenta del passato della memoria e si protende verso un domani che conservi come futura memoria, questo presente di oggi è il passato che in esso in sé ingloba, Per questo l’uomo verticale non costruisce a scadenza, ma nella propria dimora, in un modo o nell’altro, imprime quel segno di voluta immortalità che è la forma contemplabile finalizzata a se stessa…. e l’albero come tale può essere il simbolo di quella completa identità fra rappresentazione e funzione che la cultura detta dell’albero insegna all’uomo a perseguire nelle proprie opere; mentre la cultura che diciamo dello spazio è una cultura dell’assoluta funzionalità : insegna a distruggere tutto quello che sopravvive alla funzione. Per questo abbiamo detto che la cultura dello spazio è orizzontale. Orizzontale ed estensiva.
Diciamo cultura orizzontale, e con questo intendiamo una cultura senza memoria e senza finalismi che vadano oltre l’immediatezza del vantaggio presente. Una cultura, diciamo, che non ha radici e non si leva in alto: conosce solo l’attualità che in se stessa comincia e in se stessa finisce. E l’uomo della cultura orizzontale è uomo smemorato: non già perché abbia perduto la memoria, ma perché se l’è scrollata di dosso come un ingombro che gli impedisse la speditezza dell’andare: sempre più avanti, sempre più oltre, in un’incessante accumulazione di oggi autofondati e autogiustificativi; che si allineano l’uno dopo l’altro senza compenetrarsi l’un l’altro e senza immedesimarsi l’uno nell’altro, perché il loro tempo è rettilineo, non si curva mai su se stesso né fa mai ritorno a se stesso. Invece a se stesso fa ritorno e in se stesso si curva il tempo dell’albero: tempo circolare come circolare è il susseguirsi delle stagioni, che passano l’una nell’altra e sempre a se stesse fanno ritorno, ciascuna portando in sé la memoria di quella che l’ha preceduta, che a sua volta era stata la memoria della stagione da cui al momento giusto era nata. La stagione del riposo, e poi quella delle gemme, dei fiori, del fogliame e dei frutti. Ad ogni stagione il suo frutto, la sua erba, il suo ortaggio. Cadono in autunno le foglie, ma poi torneranno.
Non così la cultura dello spazio: la cultura dello spazio non sopporta diversità di stagioni: E per avere gli stessi frutti, le stesse erbe, i medesimi ortaggi in tutti i dodici mesi dell’anno, identici sempre nell’aspetto, benché senza profumo e senza sapore, la cultura dello spazio imprigiona gli alberi che non può recidere perché i frutti ne sono comunque necessari: vi stende sopra una cappa, la chiamano protezione, e li condanna ad una temperatura forzata, ad un persistente sempre uguale umidore. Nasconde il sembiante dell’albero, anzi il sembiante degli alberi. Li trasforma in palloni di plastica, identici fra loro: geometricamente disposti in una estensione che non è più paesaggio ( il paesaggio era individualità) ma è disindividuata spazialità; in ogni punto identica a se stessa è l’uniformità, ricoperta pur essa di plastica, di quelli che una volta erano gli orti e i prati: ora sono stati standardizzati, diventati meccanomorfi come meccanomorfi e standardizzati, sono gli ex-alberi; ordinati in serie ai fini della maggior quantificazione possibile di quelli che una volta erano i frutti, ognuno diverso dall’altro, ma ora sono prodotti, a guardarli, non sai più se artificiali o naturali. Più artificiali, forse, che naturali. Così come più artificiale che naturale è l’aspetto (ma anche l’odore e il sapore) degli ortaggi e delle erbe serialmente prodotte, con procedere standardizzato e standardizzante, sotto i tendaggi delle colture protette: che cancellando dalla terra le stagioni hanno spogliato il mondo della molteplice diversità dei suoi luoghi, del variare delle stagioni, che sempre era lo stesso in quanto identico a se stesso, ma pur sempre era nuovo, in quanto in sé diverso.
Il tempo si è orizzontalizzato, è diventato pura quantità successiva, spoglia di ogni durata individualizzatrice. Ed in questo tempo orizzontalizzato dallo standard e dalla serialità, gli alberi-palloni di plastica, ecco, gli alberi hanno dimessa la loro individualità di immagine, allo stesso modo in cui la propria individualità di immagine hanno perduta i campi ed i prati e le coltivazioni di ortaggi, ormai assimilate alle macchine produttive. E’ la cultura dello spazio che ha soggiogato gli alberi da frutto, tramutandoli in una sorta di macchine produttive. E quando non c’era bisogno di soggiogarli perché nulla producevano di utile, allora non restava che buttarli giù e sradicarli: poiché potevano addirittura essere pericolosi, ostacolandone il movimento, agli uomini smanianti di assoggettare a sé quanto più spazio possibile nel più breve tempo possibile….. trionfo della cultura dello spazio sulla cultura dell’albero. Abbattuti gli alberi, e sbancati i giardini, nei quali gli alberi, assieme agli altri doni del suolo, ed alle acque erano bellamente disposti ( ho ripetuto ancora la definizione di Kant). In vario modo da tutti e dovunque apologizzato e incrementato, così esigeva l’urbanesimo. E l’urbanesimo è il regno della finitezza che si accumula, che cresce su se stessa, che priva gli uomini di ogni apertura sull’infinito: su quell’infinito di cui l’albero è simbolo, e che la cultura dello spazio rinnega in nome, appunto, dell’estensione orizzontale come illimitata espansione della finitezza. Ma non è inconsapevole nostalgia di infinito, quel soffocamento da cui si sentono presi gli uomini sopraffatti dall’urbanesimo che toglie loro il respiro?
Respiro, qui può essere una metafora fisiologia, vuol designare l’esigenza di ricongiungersi all’infinito, della cui privazione patisce la nostra finitezza che l’urbanesimo, figlio della cultura dello spazio, ha imprigionata in se stessa. Il soffocamento del corpo come segno di un soffocamento dell’anima. E se vogliamo tornare a respirare, restituendo all’anima le ali che portino nell’infinito, dobbiamo rimetterci a coltivare alberi e ad impiantare giardini.

Rosario Assunto - Cultura degli alberi e cultura dello spazio (prima parte)

Questo testo di Rosario Assunto , filosofo ed estetico del paesaggio scomparso ormai da diversi anni, estratto dall'articolo “Cultura degli Alberi e cultura dello spazio” pubblicato sul libro “Alberate a Roma” Istituto Quasar Roma 1990 rappresenta a tutti gli effetti un manifesto : il manifesto della cultura dell'albero, leggetelo attentamente...


 Rosario Assunto (28 Marzo 1915 - 24 gennaio 1994)

… A questo punto, sarebbe facile voltare il discorso in politica. Ma non ho alcuna intenzione di farlo. Prima di tutto, perché nessuna parte è senza peccato; poi, e principalmente, perché la politica urbanizzatrice e motorizzatrice, muovesse da destra o da sinistra o dal centro, era l’epifenomeno di una cultura : giacché la cultura condiziona la politica , e non viceversa come per troppo tempo s’è creduto. Se la politica , ogni politica, a cominciare dalla metà di questo secolo, impose, o quanto meno consentì, che si abbattessero alberi e si devastassero giardini….quegli abbattimenti, e quelle devastazioni, anzi i programmi che, in un modo o nell’altro, li resero necessari, avevano pure quella che con termine leibniziano mi piace chiamare la loro ragione sufficiente. E questa ragione sufficiente si identifica nella cultura dello spazio di cui a questo punto dobbiamo investigare i connotati, accertandone l’opposizione alla cultura che diciamo degli alberi. Cominceremo allora col sottolineare come la cultura dello spazio sia una cultura orizzontale ed estensiva, mentre la cultura degli alberi è verticale ed intensiva. E non si tratta di due riferimenti, diciamo così, topologici : Nel senso in cui le nominiamo adesso , verticalità e orizzontalità, in quanto attributi di due culture fra loro in guerra, definiscono due idee dell’uomo e, di conseguenza, due opposte modalità del nostro stare al mondo, del nostro comportamento nei confronti del mondo.
Diremo,allora, l’uomo verticale e l’uomo orizzontale. Uomo dello spazio, quest’ultimo, mentre il primo possiamo chiamarlo uomo dell’albero. Ma perché uomo dell’albero?
Figuralmente, l’albero è, appunto, verticale. Si alza dalla terra verso il cielo. E’ un individuo, sia pure appartenente, come tutti gli individui, ad una specie, ad una famiglia. Come l’albero ha le sue radici nella profondità della terra, così come l’uomo verticale emerge dalle profondità del passato, suo e di tutti (chi non ricorda Thomas Mann, profondo è il pozzo del passato ?). E come l’albero dei succhi della terra, così l’uomo verticale si nutrisce della memoria: memoria di sé come individuo e memoria degli altri, degli individui pari a lui. Memoria di ognuno che a tutti si comunica come parola. Ma anche memoria di tutti: la memoria storica che di sé sostanzia le tradizioni, e plasma l’immagine dei luoghi come luoghi individuati : che non sono semplici punti nello spazio. Luoghi pur essi verticali: come l’uomo che nella loro immagine si riconosce. E l’albero si alza verso il cielo, nel cielo protende i suoi rami, qualificando il luogo in cui sorge, non diversamente da come lo qualifica una torre, un campanile. Individualizza lo spazio, nel senso che non possono darsi al mondo due luoghi che siano fra loro identici. Esattamente come nel famosissimo argomento antiempirista di Leibniz : il quale più volte scrisse non potere esservi al mondo due foglie identiche, nemmeno tra quelle cresciute nello stesso ramo di una medesima pianta. E nemmeno due gocce di liquido, due scheggie di pietra che siano identiche fra loro.
Gli alberi, allora , proprio in quanto sono individui, non possono essere prodotti in serie. L’albero è la negazione dello standard. Lo standard è quantità pura, molteplicità degli identici. Gli alberi, siano essi filari ai bordi di una strada, oppure in coltivazione, persino nel fitto di una selva, sono molteplicità in se stessa diversa, quantità qualificata – e sarebbe meglio dire: qualità moltiplicata. E questa qualità moltiplicata sono gli individui non omologati nello standard o agglomerati nella massa : che sono, lo standard e la massa, i due aspetti, antagonistici ma correlativi, due facce della medesima medaglia, della condizione a cui l’uomo è stato retrocesso da quella che possiamo chiamare la cultura dello spazio, in contrapposizione alla cultura dell’albero. Segue a questo link 

Gli Alberi di Hermann Hesse


Hermann Hesse (2 Luglio 1877 - 9 Agosto 1962) 

Una citazione tratta dal libro di
Herman Hesse “Il Canto degli alberi" , Le Fenici tascabili, Guanda Editore 
(un libro fondamentale per ogni biblioteca e per ciò che riguarda la cultura dell'albero)
"Per me gli alberi sono sempre stati i predicatori più persuasivi. Li venero quando vivono in popoli e famiglie, in selve e boschi. E li venero ancora di più quando se ne stanno isolati. Sono come uomini solitari. Non come gli eremiti, che se ne sono andati di soppiatto per sfuggire a una debolezza, ma come grandi uomini solitari, come Beethoven e Nietzsche. Tra le loro fronde stormisce il mondo, le loro radici affondano nell’infinito; tuttavia non si perdono in esso, ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo : realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi. Niente è più sacro e più esemplare di un albero bello e forte.
Quando un albero è stato segato e porge al sole la sua nuda ferita mortale, sulla chiara sezione del suo tronco - una lapide sepolcrale – si può leggere tutta la sua storia: negli anelli e nelle con crescenze sono scritte fedelmente tutta la lotta, tutta la sofferenza, tutte le malattie, tutta la felicità e la prosperità, gli anni magri e gli anni floridi, gli assalti sostenuti e le tempeste superate. E ogni contadino sa che il legno più duro e più pregiato ha gli anelli più stretti, che i tronchi più indistruttibili, più robusti, più perfetti, crescono in cima alle montagne, nel perpetuo pericolo,
Gli alberi sono santuari. Chi sa parlare con loro, chi li sa ascoltare, conosce la verità. Essi non predicano dottrine e precetti, predicano, incuranti del singolo, la legge primigenia della vita.
Così parla un albero : in me è celato un seme, una scintilla, un pensiero, io sono vita della vita eterna. Unico è l’esperimento che la madre perenne ha tentato con me, unica la mia forma e la venatura della mia pelle, unico il più piccolo gioco di foglie delle mie fronde e la più piccola cicatrice della mia corteccia. Il mio compito è quello di dar forma e rivelare l’eterno nella sua marcata unicità.
Così parla un albero : la mia forza è la mia fede. Io non so nulla dei miei padri, non so nulla delle migliaia di figli che ogni anno nascono da me. Vivo il segreto del mio seme fino alla fine, non ho altra preoccupazione. Io ho fede che Dio è in me. Ho fede che il mio compito è sacro. Di questa fede io vivo.
Quando siamo tristi e non riusciamo più a sopportare la vita, allora un albero può parlarci così : Sii calmo! Sii calmo! Guarda me! La vita non è facile, la vita non è difficile. Questi sono pensieri infantili. Lascia che Dio parli in te ed essi taceranno. Tu hai paura perché la tua strada ti allontana dalla madre e dalla patria. Ma ogni passo e ogni giorno ti riconducono di nuovo alla madre. La patria non è in questo o quel luogo. La patria è dentro di te, o in nessun posto.
La nostalgia di vagare senza meta mi prende il cuore, quando a sera, sento gli alberi stormire nel vento. Se li si ascolta a lungo, in silenzio, anche la nostalgia di vagare rivela appieno il suo significato più profondo. Non è desiderio di scappare via dal dolore, come sembra. E’ nostalgia della propria patria, ricordo della propria madre, struggimento per nuovi simboli di vita. Conduce a casa. Ogni strada conduce a casa, ogni passo è nascita, ogni passo è morte, ogni tomba è madre.
Così sussurra l’albero nella sera, quando abbiamo paura dei nostri pensieri infantili. Gli alberi hanno pensieri duraturi, di lungo respiro, tranquilli, come hanno una vita più lunga della nostra. Sono più saggi di noi finché non li ascoltiamo. Ma quando abbiamo imparato ad ascoltare gli alberi, allora proprio la brevità, la rapidità e la precipitazione infantile dei nostri pensieri acquistano una letizia incomparabile. Chi ha imparato ad ascoltare gli alberi non desidera più essere un albero. Non desidera essere altro che quello che è. Questa è la patria. Questa è la felicità."
(1919)

sabato 26 gennaio 2008

Dialogo tra due olmi in una mattina d'inverno

All’alba, in una fredda e pallida mattina d’inverno, quando le strade sono ancora deserte e il cinguettare degli uccellini predomina sul silenzio, informandoci della loro presenza, è possibile ascoltare le voci della natura, quella natura soffocata dalla città, dai suoi ritmi rapidi e violenti coordinati e scanditi come jingles pubblicitari in un processo inarrestabile, che non conosce pause o cesure. E in un momento come questo che in Via Alberto Pollio, di fronte al centro commerciale Auchan, a Casalbertone, avreste potuto ascoltare le voci labili e immaginarie di un bellissimo viale di olmi, olmi siberiani, apportatori di ombra, ossigeno e grazia. Passandoci accanto la mia attenzione ( e il mio udito fantasioso) si è focalizzato su due vicini tra loro che così parlavano, ad alta voce. Olmo Camillo : “ Ieri sera, alle 18 del 15 Gennaio , è caduto l’Olmo Mauro, pensa che era il suo onomastico. Non so se hai visto quanta pioggia c’è stata in questi quattro giorni. Pensavo che non finisse più. Vabbè che quest’estate è stata terribile, però quando si esagera…” Olmo Vittorio . “ E come mai è caduto?” Olmo Camillo : “ Le sue radici…hanno ceduto. Stava bene in salute, alto e robusto come noi …e che questi umani sono strani, davvero strani…” Olmo Vittorio: “Strani? E perché?” Olmo Camillo: “ Non hai sentito? Qui dovranno spostare il loro mercato, tra qualche mese, quello che ora sta accanto ai nostri cugini platani in via Ricotti.” Olmo Vittorio : “Ah! Bello ! Così avremo più gente che ci potrà osservare e guardare quanto siamo belli e grandi e rispettarci ed amarci.” Olmo Camillo : “ Si magari. Beh , sei ancora un po' ingenuo Vittorio… sai perché l’Olmo Mauro è caduto?” Olmo Vittorio : “ No, perché?” Olmo Camillo : “ Ti ricordi la nonna Magnolia? Aveva più di settant’anni, grande, verde robusta. Una mattina sono arrivati degli uomini con una motosega…” Olmo Vittorio “ Oh no, le motoseghe ti prego, non nominarle! Li ho visti ieri, quegli uomini con le luci blu lampeggianti e con le tute marroni con le scritte gialle (vigili del fuoco) mentre tagliavano l’Olmo Mauro sotto la pioggia…” Olmo Camillo : “ beh! È caduto su tre macchine, ad una gli ha fracassato il vetro e la parte posteriore. Ora il comune degli umani rimborserà i proprietari…ma torniamo alla magnolia. L’hanno tagliata brutalmente , gli uomini dicono capitozzata, ma un giorno è arrivata una gru e se la sono portata via. Poi sono arrivati altri uomini e hanno iniziato a buttare cemento e a costruire delle fondamenta per quella casupola che c’è lì diroccata, a due piani.” Olmo Vittorio: “ quale quella con il cancello nero di legno, che per limitarlo mi hanno messo dei chiodi sul tronco e buttato cemento sulle mie radici? Olmo Camillo : “ si quella! La casa che , mi chiedo ( e forse anche qualche umano se lo è chiesto) ma come ha fatto ad avere le autorizzazioni per essere costruita quando già sapevano che lì doveva andarci il mercato? Strane cose succedono tra gli uomini? Olmo Vittorio : “ Si , ma torniamo all’Olmo Mauro, allora perché è caduto?” Olmo Camillo : “ mi sembra chiaro che se costruisco un muro di cemento armato a ridosso di un albero alto 10 metri , quando piove non c’è più drenaggio, la terra si smotta e le radici si perdono e non hanno più presa. Poi se pensi che le nostre radici sono lunghe diversi metri e per far questo muro una parte ce le hanno tagliate…ricordi, anche a noi qualche anno fa?” Olmo Vittorio “ si, meglio non ricordare quei giorni.” Olmo Camillo : “ e le urla dell’Olmo Mauro? Quando è caduto non era morto , ma un albero quando cade ( a differenza di un uomo) è spacciato. Non ci sono ospedali per gli alberi. L’albero caduto va subito abbattuto e tagliato. Ed è quello che è successo ieri…” Olmo Vittorio :” ma che ne sarà di noi nei prossimi giorni?” Olmo Camillo : “ Continueremo a vivere da alberi. Tra qualche giorno è tempo di mettere nuove foglie e frutti, i nostri piccoli coriandoli con i quali rallegreremo e riempiremo tutti i marciapiedi. Aspetteremo il sole e il nuovo mercato degli umani” Olmo Vittorio “ e della casetta diroccata, che ne sarà?” Olmo Camillo : “ Chi lo sa, “quien sabe” come dicono alcuni umani” Olmo Vittorio : “ Aspetteremo il sole” Olmo Camillo :” si il sole, la nostra vita…”
Antimo Palumbo